venerdì 26 luglio 2024

BARCELONA (Montjuic e Camp Nou)

 Agosto 2022




LA GLORIA DI TONY


 A leggere distrattamente la carriera di Anthony "Tony” Parks, non sembrerebbe nulla di imprescindibile. Tanta panchina e poche presenze in campo, eccetto le esperienze al Brentford ed al Falkirk in Scozia. Tuttavia nel vissuto calcistico di questo portiere, londinese di Hackney, classe 1963, vi è stato un momento, seppur breve, di un'intensita' tale da nobilitare tutti quegli anni da onesto comprimario.

Stagione 1983/84: il ragazzo cresciuto nelle giovanili del Tottenham è approdato in prima squadra, ma quando hai davanti uno come Ray Clamence, non puoi ambire ad altro che non sia un posto in panchina e farti trovare pronto se dovesse casomai presentarsene l'occasione.

Ed effettivamente l'occasione arriva, ed è di quelle da far tremare i polsi....gli uomini di Keith Burkinshaw, giungono alla doppia finale di coppa Uefa contro l'Anderlecht guidato da Paul Van Himst. Un infortunio mette fuori gioco Clemence, quindi sarà proprio Tony a difendere la porta degli Spurs.

9 maggio 1984, va in scena in Belgio il primo atto, la gara seppur non eccelsa, è comunque godibile e sostanzialmente equilibrata. Parks nello specifico fa il suo, soprattutto con una bella uscita al limite nella ripresa che chiude lo specchio all'avversario; il Tottenham passa in vantaggio con Miller di testa sugli sviluppi di un corner al quarto d'ora della seconda frazione e avrebbe pure l'occasione per raddoppiare, così come l'Anderlecht di riacciuffare il pari, ma tutto rimane invariato. Poi a cinque minuti dal termine la frittata: conclusione dei padroni di casa appena dentro l'area, Tony si oppone ma non trattiene e per un giocatore esperto come Morten Olsen è uno scherzo ribadire in rete da pochi passi, 1-1 e si va al return match.

White Hart Lane, 23 maggio, la la sera in cui si assegna la coppa.

Gli spurs costruiscono alcune buone occasioni, ma dove non arriva il portiere Munaron è la mira di Archibald e compagni a difettare, i belgi sono pericolosi con un paio di contropiedi, ma Parks, impeccabile in uscita, sventa la minaccia. Nella ripresa al quarto d'ora, arriva la doccia fredda, sotto forma di un lancio in profondità di Olsen che innesca Czerniatynski. Il suo tocco  a scavalcare, trafigge l'incolpevole Tony. Il Tottenham si getta a testa bassa alla ricerca del pari,ma nonostante la pressione, il pallone di entrare proprio non ne vuol sapere....poi a sette minuti dal termine, dopo una potente conclusione di Ardiles che sbatte sulla traversa, è Graham Roberts a trovare lo spiraglio giusto per rimettere in carreggiata il match. Parità che non muta neppure ai supplementari, quindi trofeo che verrà assegnato dal dischetto. Nella prima serie di penalty, Tony vola alla sua sinistra e si prende la rivincita su Olsen neutralizzando la sua conclusione. In seguito dopo la grande precisione di entrambe le formazioni, Danny Thomas ha sui piedi il match ball ma Munaron intuisce e para. Gudjonsen potrebbe portare la serie ad oltranza...ma sale in cattedra proprio il ventunenne Parks che si tuffa sulla sua destra, respinge e chiude i giochi.

White Hart Lane è in delirio, la coppa é degli spurs e Tony diventa l’eroe di quella trionfale serata.

Andy Warhol sosteneva che ognuno nella vita avrebbe avuto a disposizione i suoi quindici minuti di gloria. In questo caso Tony è andato ben oltre, ne ha avuto 180, più supplementari e rigori ovviamente....


(Cristian Lafauci)

INCONTRI (TROPPO) RAVVICINATI A PLOUGH LINE



 Probabilmente nessuno degli spettatori che si trovava a Plough Lane quel pomeriggio di febbraio del 1988, poteva immaginare che quella partita sarebbe entrata a suo modo nella storia, e non certo per il gioco espresso in campo. Wimbledon e Newcastle non erano propriamente il top del calcio inglese di allora. 

I padroni di casa infatti erano più che altro noti per il loro gioco ruvido, spesso e volentieri una vera e propria intimidazione ai danni della formazione avversaria di turno, mentre nei Magpies, che non erano più ai livelli di quanto mostrato nelle decadi passate, emergeva tuttavia un giovane di belle speranze ed ancor più fulgido talento, chiamato Paul Gascoigne. 

Manco a dirlo, a prendersi cura dell'enfant prodige in maglia bianconera, è l'uomo decisamente più rappresentativo di una squadra soprannominata "crazy gang”, ovvero il gallese Vinnie Jones, un hooligan in tenuta da calcio che sembra aver recepito alla lettera quella regola non scritta del paron Nereo Rocco, risalente a qualche decennio prima secondo cui occorreva colpire senza tanti complimenti tutto ciò che si muoveva in campo, se poi era il pallone tanto meglio....

Per rendere più esplicito quello che sarà il tema dominante del pomeriggio, già nel tragitto che conduce i giocatori in campo, Jones si premura di illustrarlo al giovane Gazza con poche semplici ed inequivocabili parole: "oggi siamo solo noi due,io non giocherò a calcio, e nemmeno tu..." 

Vinnie sa bene che sfidare Paul sul piano della tecnica sarebbe una sconfitta in partenza, perciò da ragazzaccio qual'e' gli mette pressione,dando quindi eloquentemente seguito sul terreno di gioco con i colpi più temibili del suo repertorio. 

Gazza che nonostante la sua giovane età può comunque vantare una già discreta esperienza, si sente intimidito da quella marcatura e da quelle attenzioni più consone ad un inizio di rissa in un pub al sabato sera che di una gara di first division, ma cerca ugualmente di sfuggire alla morsa senza sconti di Vinnie e di distribuire palloni giocabili ai suoi compagni. 

A quel punto allora il “bad boy” per eccellenza del calcio britannico decide che il tempo dei convenevoli è scaduto e di passare a sistemi ben più espliciti, così in uno dei tanti contrasti di gioco si produce in una decisa strizzata dei gioielli di famiglia del malcapitato Gascoigne. 

Quel fotogramma che ritrae l'episodio è arrivato inalterato sino ai giorni nostri come una delle istantanee che rappresentano il calcio di Oltremanica insieme ad altre immagini, decisamente ben più nobili ma non meno autentiche; la storia narra che al termine dell'incontro Gazza per stemperare il tutto e metterla sul ridere fece recapitare a Vinnie nello spogliatoio un mazzo di fiori, dal quale poi ricevette come contropartita nientemeno che lo spazzolone del water....incredibile ma vero, pochi mesi dopo il Wimbledon sollevò a Wembley l'ambita FA Cup.

Gazza nel frattempo si consacrò come uno dei più apprezzati giocatori del calcio inglese e non soltanto. A fare da contraltare a tanto talento però ci si misero alcuni brutti infortuni e numerosi problemi nella sua vita privata, dai quali tuttora sta cercando con fatica ma con lo stesso sorriso sulle labbra, a smarcarsi, mentre Vinnie, smessi i panni da calciatore, ha intrapreso una prolifica e tutto sommato apprezzabile carriera cinematografica. 

E in tempi più vicini a noi è giunta un'altra foto, a fare il paio con quella ben più nota risalente a quel giorno a Plough Lane. Quella di due signori di mezza età, spalla a spalla, a riderci su a proposito degli attriti agonistici del passato.

Del resto il terzo tempo (stavolta analcolico) è pur sempre una tradizione proveniente da nord di Dover....

Cristian Lafauci

UNA FEDE DA TRAMANDARE


Adesso Gianni aveva bisogno di farsi una birra. Forse anche di un paio. Gli ultimi due gironi trascorsi, che coincidevano con i primi di vacanza, erano stati complicati, agitati, duri.

Doveva riordinare le idee, calmare i pensieri negativi e riappropriarsi del proprio spirito.
Si infilò nella “Taberna di Iker”, inzuppato di pioggia e di vento, nei vestiti e nell’umore, con il leggero lamento di sottofondo della fidanzata Francesca.
L’asfalto viscido l’aveva fatta cadere per terra e il suo ginocchio si stava gonfiando lentamente ma inesorabilmente.
Una taberna ad un tiro di schioppo dalla spiaggia della Concha, là dove il mare e il vento entrano nella città basca di San Sebastián attraverso i pertugi del “Pettine del Vento”, opera scultorea dell’artista Eduardo Chilidda, nella parte occidentale della splendida baia affacciata sul mar Cantabrico.
Forse, arrivare a Donostia, perché così la chiamavano qui, senza nessuna prenotazione, non era stata la migliore delle idee, soprattutto in periodo di Semana Granda. Non avere un letto sicuro dove poggiare lo scheletro la notte era un pensiero che lo agitava e turbava. Ma turbava soprattutto Francesca.
Si arrangiarono in un piccolo campeggio a 20 chilometri da San Sebastián per la prima notte. Montarono in fretta e furia una piccola tenda che per fortuna avevano portato nel baule della loro Fiat “Punto”, una situazione di emergenza, ma non certo di piacere.
Pioggia e vento però non sembravano concedere tregua, e già dallo loro arrivo in città, le temperature autunnali più che per il mese di Agosto, avevano contribuito a rendere quell’inizio vacanza faticoso e pesante.
Gianni tirò un lungo sorso dalla pinta e la schiuma della birra, sapientemente spillata dall’oste, gli inumidì i baffi che da qualche tempo teneva con cura.
Dal piccolo impianto stereo sopra il bancone della taberna, uscirono le note del nuovo pezzo dei Red Hot Chili Peppers, “By the way”, e anche lui, come il protagonista del testo ambientato a Los Angeles, si sentiva perso e in balia degli eventi in questo pezzo di terra chiamato Paesi Baschi.
Si, perché qui non eravamo in Spagna e nemmeno in Francia. Questo lo aveva capito subito al volo, dai muri, dalla gente e dalla lingua praticamente indecifrabile.
Alzò gli occhi sopra l’entrata della taberna, vide due fotografie, ingiallite, incorniciate e ingrandite a misura importante. Si rese subito conto che fossero qualcosa di serio, un piccolo altare, a cui tutte le persone in quei luoghi rendevano omaggio.
Una fotografia ritraeva due giocatori, probabilmente i due capitani, all’entrata in campo di una partita, con una bandiera che tenevano entrambi stretta in mano.
L’altra foto invece immortalava, un tiro in porta di un giocatore baffuto, con la maglia biancoblu a strisce verticali. Capì subito che si trattasse di un gol storico.
Iker, il padrone della taberna, lo guardò in silenzio, vide l’interesse sincero di Gianni per quelle immagini e decise di raccontargli la storia.
Parlava bene l’italiano, complice una relazione amorosa di qualche anno con una ragazza di Pisa, conosciuta proprio a San Sebastián. Una relazione che gli aveva lasciato qualche rimpianto di troppo ma anche una buona conoscenza della lingua di Gianni.
Iker, era un uomo che accarezzava ormai la cinquantina d’anni, capelli radi e alcuni chili di troppo da portare nei pantaloni.
Attaccò bottone in un attimo e Gianni in pochi secondi si trovò in campo.
Camminò idealmente dietro ai due capitani di Real Sociedad e Athletic Bilbao in una domenica di Dicembre del 1976. Quella bandiera che stringevano fra le mani, creata artigianalmente e fino ad allora dichiarata illegale dal regime franchista, divenne il manifesto dell’indipendenza basca.
Kortabarria e Iribar tenevano i lembi della “Ikurrina” che per la prima volta dai tempi della Guerra civile sventolava in pubblico senza che ci fossero rappresaglie. Poco tempo prima, l’allora ministro dell’Interno spagnolo Manuel Fraga Iribarne aveva ribadito che «quella specie di Union Jack» era un insulto agli spagnoli. «Prima di esibire questa bandiera dovranno passare sul mio cadavere» aveva sentenziato.
Del 5-0 per la Real Sociedad di quel giorno si ricorderanno in pochi, rispetto a quello successo prima del fischio iniziale. Per giorni la stampa non parlò d’altro. Nelle città basche furono organizzati cortei per chiedere di legalizzare la bandiera, Madrid cedette alle pressioni. Il 25 gennaio 1977, per la prima volta, spuntò sul balcone di un palazzo istituzionale di Pamplona.
Gianni prese fiato, incantato dal racconto di Iker. Un racconto zuppo di orgoglio, come i suoi vestiti bagnati dalle intemperie di quei giorni. Poco dopo si ritrovò seduto su una vecchia Seat 133 in direzione Gijón. Un fiume di macchine che da San Sebastián si stava dirigendo verso la città asturiana. Trecentocinquanta chilometri di speranza, sogni, tensioni e trepidazione, perché quello è il giorno in cui la Real Sociedad avrebbe potuto vincere il suo primo titolo della Liga spagnola.
26 Aprile 1981. La storia bussò alla porta della Real Sociedad a 12 secondi dalla fine.
Pioggia a dirotto e fango sul campo di Gijón, con i bianco blu sotto di una rete e di un punto dal Real Madrid. Dagli spalti una distesa infinita di ombrelli, di tifosi baschi con l’animo quasi allo stremo. Un’ultima palla buttata al centro dell’area di rigore, un’uscita goffa del portiere avversario, un primo tentativo di tiro, sbilenco, e la sfera giunse sui piedi di Jesus Maria Zamora (per chi crede anche ad eventi divini) che infilò il 2-2 definitivo. Il resto è storia. La storia di una squadra che vinse il titolo spagnolo per differenza reti, la storia di una notte che per tanti rimarrà indimenticabile e che Iker racconta con le lacrime agli occhi e la pelle d’oca che affiora improvvisa.
D’istinto Gianni capì che quello era il suo destino calcistico: tifare per la Real Sociedad.
Un destino calcistico che non lo aveva mai incastrato nei confini italiani.
Non era mai stato un bambino da figurine Panini e non aveva avuto un padre stressante per l’eredità di tifo, semplicemente gli piaceva il calcio, lo aveva anche giocato da bambino, ma non aveva una squadra da tifare in serie A.
Non gli era mai importato più di tanto.
Il destino ora lo stava travolgendo e la casacca biancoblu della Real Sociedad entrò prepotente nella sua vita.
Nei giorni di permanenza a San Sebastián continuò a frequentare Iker e la sua taberna, divennero amici, si lasciarono i rispettivi indirizzi mail e prima di andarsene da quella città che stava diventando amica, comprò una maglia della Real Sociedad in un negozio sportivo. La prima maglia da calcio della sua vita.
Quello che non poteva nemmeno lontanamente immaginare era che la stagione 2002-2003 che stava per iniziare, sarebbe stata la più esaltante da tanti anni a quella parte per i colori biancoblu.
Le mail periodiche con Iker lo facevano sentire parte integrante del tifo per la Real Sociedad. Iker gli raccontò tutto della storia del club e l’orgoglio di tifarlo.
A Marzo del 2003 arrivò sulla casella di Gianni, una mail da Iker, contenente un allegato. Con la complicità di Francesca, Iker gli regalò dei biglietti aerei per raggiungerlo a San Sebastián il mese successivo. La mail terminò con “preparati che ho tre biglietti dello stadio per Real Sociedad-Real Madrid”.
Pianse di gioia e commozione, avrebbe visto la sua squadra dal vivo, in una partita fra le due principali contendenti al titolo della Liga.
Il 13 Aprile del 2003, andò in scena una delle opere d’arte calcistiche più incredibili della storia della Real Sociedad.
Dopo mezz’ora dal fischio d’inizio il tabellino riportava “Real Sociedad 4, Real Madrid 1 “.
Kovacevic, Nhiat, Xabi Alonso e soci fecero fare comparsa ai vari Roberto Carlos, Figo, Zidane, Ronaldo e Raul. I biancoblu baschi capirono che il titolo si poteva conquistare. Lo stadio “Anoeta” esplose di felicità al fischio finale, un 4-2 che rimase scolpito nella storia del club. Fu una notte di festa nelle strade di San Sebastián, una festa contagiosa. Gianni e Francesca assaporarono quelle sensazioni di felicità a pieni polmoni.
La taberna di Iker quella sera sembrò essere il posto più fantastico del mondo, tra boccali di birra, balli sfrenati e abbracci fraterni. Una serata indimenticabile, una fra le quattro o cinque che avrebbero ricordato per il resto della loro vita.
Poi però, poco a poco nel giro di qualche settimana, si spense la luce.
Il peso di trovarsi prima in classifica schiacciò le prestazioni della Real Sociedad che nelle ultime tre giornate di campionato, lasciò il titolo al Real Madrid.
Un altro viaggio di speranza accompagnò i tifosi biancoblu fino a Vigo nella penultima di campionato.
La stessa carovana di auto di vent’anni prima, gli stessi sogni, gli stessi sguardi e le stesse preghiere, poi tramutatosi in imprecazioni e pianti per la sconfitta finale e il sorpasso delle merengues in classifica.
Gianni in Italia seguì gli eventi attaccato al Televideo della Rai. Ad ogni aggiornamento in tempo reale una fitta di emozione e ansia lo assalì. Quando capì che il titolo era svanito, pianse di delusione e tristezza.
Non si capacitò di come il destino gli avesse girato le spalle, facendogli toccare prima il cielo e poi raschiare il fondo del barile nel giro di così poco tempo.
Quella sensazione lo accompagnò per anni.
Una sensazione di impotenza e smarrimento, come quando la Real Sociedad retrocedette in seconda divisione nel 2006 o quando veniva di fatto escluso dai discorsi calcistici con gli amici al pub, colpevole di tifare una squadra strana, in solitario. Questi particolari lo rendevano agli occhi degli altri una sorta di “matto calcistico”. Ma in fondo a lui piaceva non mischiarsi con gli altri e coltivava in segreto il giorno della sua riscossa.
Il 3 Aprile del 2021, in periodo di lockdown nazionale, le ore sembrarono non passare mai.
In serata si sarebbe disputata la finale di Copa del Rey, tra la Real Sociedad e l’Athletic Bilbao. Gianni tremava di paura e ansia.
Il covid bastardo si era preso l’amico Iker di recente e il divieto di spostamento dall’Italia gli aveva impedito un ultimo doveroso e rispettoso saluto fraterno. Accese la televisione e nonostante l’assenza di pubblico e un ambiente asettico, il suo cuore pulsava come non mai per l’agitazione. Addosso la stessa maglietta biancoblu comprata vent’anni prima a San Sebastián, la gola impastata e la saliva azzerata dalla tensione.
Al fischio finale che sanciva la vittoria della Real Sociedad, il suo primo trofeo da tifoso, si sentì leggero come una piuma, pianse copiosamente, singhiozzò di felicità e girandosi assaporò la sua vittoria più grande.
Il figlio Luca di dieci anni, con una bandiera della Real Sociedad avvolta a mantello sulle spalle, saltava e gridava di gioia sul divano.
Quella pazza fede poteva continuare ad essere tramandata. 



Dedicata a Christian Lafauci


DP

UN AMORE CLANDESTINO


 Manfred non ha più voglia di fare la guerra con nessuno. Qualche capello bianco di troppo lo ha reso forse saggio e un nipotino, da portare allo stadio per tramandare la fede calcistica, lo ha rinfrancato nello spirito. Uno spirito infranto in tanti anni di battaglie per la propria squadra, il più delle volte con poco riscontro positivo e non solo in termini di risultati sul campo. Molti tifosi berlinesi dell’Hertha come lui, potrebbero scrivere pagine e pagine di libri riguardo al concetto di attaccamento e amore verso la propria squadra del cuore. Per ventotto anni hanno vissuto da tifosi clandestini, colpevoli di sostenere la squadra sbagliata della propria città. Una storia incredibilmente triste ma nello stesso tempo molto romantica che merita senz’altro di essere narrata. Nell’agosto del 1961, la Repubblica Democratica Tedesca pensò di erigere un muro a Berlino per fermare la fuga di tanti cittadini verso ovest, stanchi della dittatura a cui erano sottoposti. Per i tanti tifosi dell’Hertha , tra cui Manfred, che abitavano ancora nella parte est della capitale, fu l’inizio della fine. Nei primi mesi dopo la costruzione del muro, passava i sabati pomeriggi in piedi di fianco allo stesso, ascoltando i suoni che arrivavano dal campo di gioco dell’ Hertha, a pochi metri di distanza dalla frontiera. Bastava questo per sentirsi parte integrante del club. Quando però la sua squadra traslocò nello stadio olimpico a chilometri di distanza dal confine tutto diventò inutile. Le informazioni sull’Hertha arrivarono a singhiozzo così formò insieme ad alcuni fidati, un club di tifosi a Berlino Est, ovviamente illegale. Una volta al mese prenotavano una sala interna di un bar presentandosi come un club di bingo e ricevevano la visita di allenatori, giocatori o dirigenti dell’Hertha che attraversavano la frontiera. Quando nei programmi ufficiali delle partite cominciò a comparire la notizia degli incontri con i fedeli tifosi di Berlino Est, la Stasi, organizzazione di sicurezza e spionaggio della DDR, divenne sospettosa e cominciò a fermare i membri della squadra alla frontiera. Dopo la caduta del muro il nuovo stato tedesco ha permesso alle vittime della Stasi di leggere i dossier che li riguardavano. Manfred scoprì quante cose incredibilmente sapeva la Stasi sul sul conto. Tante volte proprio il vicino di casa era una spia della Stasi. Veniva considerato elemento sovversivo allo stato perciò meritevole di accurata sorveglianza. Come valvola di rivalsa, lui e i suoi amici  tifavano per ogni squadra occidentale che ne affrontasse una orientale. Le partite dei due club di calcio di Berlino Est (la Dinamo e l’Union presiedute dai comandanti della Stasi) erano affollati solo quando nelle coppe europee affrontavano squadre occidentali. Inutile dire per chi tifassero i tanti tifosi dell’Hertha in quelle occasioni. Si ricorse agli stratagemmi più incredibili pur di vedere l’Hertha giocare. Ai cittadini della DDR era permesso di spostarsi liberamente nei confini del blocco sovietico e chi se lo poteva economicamente permettere lo faceva. L’Hertha giocò una partita di coppa in Polonia con il Lech Poznan. Manfred parti carico di speranza. Quel giorno al confine polacco ci fu una coda davvero lunga, ma gli ufficiali di frontiera sapendo della partita rimandarono indietro le automobili. Manfred avendo previsto tutto ciò, portò con se la madre. Si inventò che la donna era cresciuta in Polonia e la stesse portando a vedere la casa natale. Manfred riuscì a vedere la partita. Credette di aver battuto il sistema, ma la Stasi era al corrente del suo viaggio, come scoprì in seguito nel dossier sul suo conto. Quest’incubo fini la notte del 9 Novembre del 1989 quando il muro crollò. Ordè di tifosi dell’Hertha di Berlino Est indossando maglie della squadra degli anni cinquanta corsero in lacrime fino allo stadio olimpico. In quell’anno l’Hertha giocava nella serie B tedesca. Alla prima partita dopo la caduta del muro contro il Wattescheid c’erano sessantamila persone. Nella conferenza stampa dopo la partita i dirigenti dell’Hertha affermarono con orgoglio che in tribuna erano stati invitati i dirigenti della Dinamo e dell’Union, i capi della Stasi, proprio quelli che per anni non avevano permesso ai tifosi di Berlino est di seguire la propria squadra. Per Manfred fu un atroce tradimento. All’incontro successivo dell’Hertha gli spettatori furono solo quindicimila.

 

DP


TIME OF PERFECTION


 Paolo quel pallone che viaggiava trasversale nel cielo di Londra lo aspettava da un po’. Orgoglioso com’era, la voleva vincere quella partita col football inglese e il risultato era inchiodato da tempo sulla parità a quota uno. Un tiepido sole di primavera disegnava una luce chiara e leggera, allora decise che quello era il momento di lasciare il segno. Per sempre. “Fottuto bastardo italiano” gli avevano rinfacciato per quella spintarella all’arbitro. Undici giornate di squalifica nella patria del football, assomigliano ad una condanna definitiva. Testa calda, gran talento sprecato, solite cose. Ci stette male per tempo, inchiodato da una critica feroce e crudele. Ma a lui il calcio anglosassone piaceva, piaceva eccome. Lontano anni luce da quel calcio italiano da cui era dovuto scappare a gambe levate. Il suo talento non gli era bastato per accaparrarsi una maglia da titolare importante, tanto valeva provare a cercare qualcosa di diverso altrove. Finì prima in Scozia con una maglia biancoverde orizzontale iconica, poi a Sheffield sponda Wednesday. Ora se ne stava qua, in uno stadio e con una tifoseria che finalmente lo adorava come forse nessuno mai aveva fatto. Il punto del pareggio col football d’oltremanica lo aveva ottenuto con la maglia claret and blue qualche tempo prima, rinunciando ad un gol quasi sicuro. Premio fair play dell’anno. D’altronde sai che soddisfazione buttarla dentro col portiere starnazzante a terra. Quel pallone spiovente allora, era troppo invitante per non provarci, per cambiare la sua storia in Inghilterra in modo definitivo. D’istinto chiuse gli occhi e si coordinò come un ballerino alla Scala. Uscì fuori una stella filante di rara bellezza, un abbaglio di classe e leggerezza, una roba che ancora adesso a Londra sponda hammers ricordano come il passare di una stella cometa. Una traiettoria disegnata col compasso che si deposita precisa e puntuale alle spalle del portiere del Wimbledon. Un gol favoloso, fra i più belli di sempre del campionato inglese. Istinto e follia. “Time of perfection” lo definirà egli stesso. Ora Paolo sta tornando verso metà campo a testa alta e sguardo fiero, con quel cazzo di orgoglio straripante che non l’ha mai abbandonato anche nei momenti più duri, godendosi quel coro che tanto gli piace intonato sul ritornello della donna è mobile del Rigoletto. “Paolo Di Canio, Paolo Di Canio, Paolo Di Canio, Paolo di Canio”. Il Boleyn Ground è ai suoi piedi.


DP


SPALTI DEL CIELO


 Christian stava aspettando una persona.

Si accese una sigaretta. Era già la quarta della mattinata. Il suo cuore era in subbuglio, colmo di emozione e trepidazione ma era elettrizzato da quell’incontro imminente.

Un uomo salì lentamente quei vecchi gradoni di legno, alla cui estremità sedeva Christian.

“Buongiorno, signor Johan” disse emozionato. “Macché signore, diamoci subito del tu, che qui non

c’è nessun signore” Si fumarono un paio di sigarette, quasi in silenzio religioso.

Squillò il telefono di Christian ad interrompere quel
momento di estasi silenziosa. Johan vide l’adesivo di Radio Cruijff attaccato al telefono del vicino. “Posso avere quell’adesivo?”
Christian arrossì, quasi preso in castagna, si vergognò un poco di quell’invasione di campo e di tanta sfrontatezza. Lavorava da qualche tempo per Radio Cruijff ed era qui per la sua rubrica “Spalti del cielo” Accennò qualcosa in evidente imbarazzo. “Non ti preoccupare Christian, se ho deciso di accettare questo incontro è perché so che Radio Cruijff sta dalla mia stessa parte. Possiamo iniziare l’intervista Christian” “Ok Johan, iniziamo”.

Si accesero una sigaretta e iniziarono a parlare di fubal

DP

ROBERTO BAGGIO


 Chissà cosa passava nella testa di Helmuth in quei giorni di inizio Giugno del 1986. I primi sussulti estivi di Bucarest gli accarezzavano la pelle in modo gentile e sotto i baffi che portava con orgoglio, un sorriso compiaciuto si allargava radioso sul suo viso. D’altronde, da qualche tempo era diventato il personaggio più amato e ricercato di Romania, un ruolo che a dirla tutta, in vita sua non avrebbe di certo disdegnato. Merito di una partita di calcio, di una vittoria sorprendente, contro il grande Barcellona, da parte di una squadra rumena, e proprio in terra spagnola.  La prima squadra rumena a vincere la Coppa dei Campioni. Una vittoria ottenuta ai calci di rigore, dove il portiere si erse ad assoluto protagonista neutralizzando tutti i tentativi dei catalani, ammutolendo i sessantamila tifosi “di casa”. Quell’estremo difensore, dalla divisa verde e le lunghe braccia cadenti alle ginocchia era proprio lui: Helmuth Duckadam, “l’eroe di Siviglia”. Delle feste mai viste prima di allora furono organizzate al ritorno in patria; divenne in breve tempo una star ben voluta e ammirata dall’intera nazione. Avrà pensato allora, che ad un eroe sarebbe stato concesso tutto, anche dei commenti poco ortodossi sul governo della Romania, un governo a lui mai piaciuto fino in fondo, ma evidentemente Ceausescu non la pensava cosi. Helmuth era un “sopportato” dal regime, che di certo non lo poté oltraggiare nel suo momento di massima celebrità popolare, ma che di sicuro non lo vide di buon occhio per via di alcuni atteggiamenti, della sua etnia tedesca, del suo cognome che non terminava con “escu”,  del suo guardare con curiosità verso l’occidente e soprattutto, cosa che si saprà in seguito, per essersi rifiutato di partecipare a delle “combine” riguardanti la sua Steaua, la squadra dell’esercito, e ordinati dall’alto. Un personaggio che si tenne volentieri in disparte, che mai dichiarò apertamente il suo attaccamento al governo rumeno e che lasciò spesso ad altri compagni di squadra i lustrini della gloria popolare. Quei suoi occhi, sempre velati di quella malinconia tipica dei transilvani, si muovevano curiosi in quei giorni di festa, lesti ad intercettare le parabole della sua inaspettata popolarità e pronti a prendere il primo treno che lo portasse lontano da lì. Il suo tempo in Romania pensò fosse finito finalmente. Perché crescere a Semlac negli anni 60 fu tutt’altro che una passeggiata. In quell’angolo di Transilvania, terra famosa perlopiù per le avventure di Dracula, e comandato dal regime comunista, sognare una vita  altrove era la fondamentale spinta per cercare di levarsi da quei luoghi di povertà e miseria. “Oltre la foresta” è il senso etimologico della parola Transilvania, ma anche il manifesto speranzoso di chi solo per sfortuna era nato in quei luoghi selvaggi intorno al fiume Mures, composti da tante isole boschive e piccole lingue di sabbia, proprio a ridosso del confine rumeno-ungherese. Un territorio di confine. Con tutto quello che ne poté conseguire,  tra processi migratori per motivi economici e richieste di autonomia interni. Una regione dove si parlavano una decina di lingue diverse tra loro. Qua nel 1959 nacque Helmuth Robert Duckadam, uno che “oltre la foresta” ci voleva andare davvero. Troppo pigro per giocare fuori, prese presto posto fra i pali, ruolo che gli venne quasi spontaneo per via del suo fisico atletico e i grandi riflessi. Dopo la notte di Siviglia, si interessò a lui il Manchester United, ma il regime, proprietario della Steaua Bucarest, disse di no. Questione di principio, di far capire chi comandava veramente e poi arrivarono strane voci sul conto di Duckadam. In giro si mormorò che avesse ricevuto in regalo una macchina Mercedes, dal Real Madrid, come ringraziamento per aver battuto il Barcellona. Un rumeno però non poteva andare in giro con una macchina del genere, ne andava del prestigio del governo, una cattiva pubblicità per il regime che tutto voleva tenere sotto la sua ala protettrice. Helmuth non ne volle sapere di cedere anche questa volta ai comandi dall’alto, troppi i soprusi di cui era stato vittima e troppi i pestaggi e le sparizioni a cui aveva assistito per assecondare di nuovo il volere statale. Il destino però era in agguato, bastardo e viscido. Dopo pochi mesi dalla magica notte andalusa, Duckadam sparì definitivamente dalle scene calcistiche. Una trombosi ad un braccio dirà il diretto interessato e mai smentirà forse con una punta di vergogna, ma la versione più accreditata fu che gli avessero rotto le braccia quelli della Securitate, poiché non volle consegnare al figlio del dittatore Ceausescu la sua Mercedes, e per alcuni frasi di troppo sul regime dello stesso. Lo spedirono altrove, licenziato dall’esercito e messo a mezzo servizio senza pensione integrativa. Divenne poliziotto di confine, una vita a cercare di scappare  “oltre la foresta” per poi ritornarci dentro malinconicamente.

DP

OLTRE LA FORESTA


 Chissà cosa passava nella testa di Helmuth in quei giorni di inizio Giugno del 1986. I primi sussulti estivi di Bucarest gli accarezzavano la pelle in modo gentile e sotto i baffi che portava con orgoglio, un sorriso compiaciuto si allargava radioso sul suo viso. D’altronde, da qualche tempo era diventato il personaggio più amato e ricercato di Romania, un ruolo che a dirla tutta, in vita sua non avrebbe di certo disdegnato. Merito di una partita di calcio, di una vittoria sorprendente, contro il grande Barcellona, da parte di una squadra rumena, e proprio in terra spagnola.  La prima squadra rumena a vincere la Coppa dei Campioni. Una vittoria ottenuta ai calci di rigore, dove il portiere si erse ad assoluto protagonista neutralizzando tutti i tentativi dei catalani, ammutolendo i sessantamila tifosi “di casa”. Quell’estremo difensore, dalla divisa verde e le lunghe braccia cadenti alle ginocchia era proprio lui: Helmuth Duckadam, “l’eroe di Siviglia”. Delle feste mai viste prima di allora furono organizzate al ritorno in patria; divenne in breve tempo una star ben voluta e ammirata dall’intera nazione. Avrà pensato allora, che ad un eroe sarebbe stato concesso tutto, anche dei commenti poco ortodossi sul governo della Romania, un governo a lui mai piaciuto fino in fondo, ma evidentemente Ceausescu non la pensava cosi. Helmuth era un “sopportato” dal regime, che di certo non lo poté oltraggiare nel suo momento di massima celebrità popolare, ma che di sicuro non lo vide di buon occhio per via di alcuni atteggiamenti, della sua etnia tedesca, del suo cognome che non terminava con “escu”,  del suo guardare con curiosità verso l’occidente e soprattutto, cosa che si saprà in seguito, per essersi rifiutato di partecipare a delle “combine” riguardanti la sua Steaua, la squadra dell’esercito, e ordinati dall’alto. Un personaggio che si tenne volentieri in disparte, che mai dichiarò apertamente il suo attaccamento al governo rumeno e che lasciò spesso ad altri compagni di squadra i lustrini della gloria popolare. Quei suoi occhi, sempre velati di quella malinconia tipica dei transilvani, si muovevano curiosi in quei giorni di festa, lesti ad intercettare le parabole della sua inaspettata popolarità e pronti a prendere il primo treno che lo portasse lontano da lì. Il suo tempo in Romania pensò fosse finito finalmente. Perché crescere a Semlac negli anni 60 fu tutt’altro che una passeggiata. In quell’angolo di Transilvania, terra famosa perlopiù per le avventure di Dracula, e comandato dal regime comunista, sognare una vita  altrove era la fondamentale spinta per cercare di levarsi da quei luoghi di povertà e miseria. “Oltre la foresta” è il senso etimologico della parola Transilvania, ma anche il manifesto speranzoso di chi solo per sfortuna era nato in quei luoghi selvaggi intorno al fiume Mures, composti da tante isole boschive e piccole lingue di sabbia, proprio a ridosso del confine rumeno-ungherese. Un territorio di confine. Con tutto quello che ne poté conseguire,  tra processi migratori per motivi economici e richieste di autonomia interni. Una regione dove si parlavano una decina di lingue diverse tra loro. Qua nel 1959 nacque Helmuth Robert Duckadam, uno che “oltre la foresta” ci voleva andare davvero. Troppo pigro per giocare fuori, prese presto posto fra i pali, ruolo che gli venne quasi spontaneo per via del suo fisico atletico e i grandi riflessi. Dopo la notte di Siviglia, si interessò a lui il Manchester United, ma il regime, proprietario della Steaua Bucarest, disse di no. Questione di principio, di far capire chi comandava veramente e poi arrivarono strane voci sul conto di Duckadam. In giro si mormorò che avesse ricevuto in regalo una macchina Mercedes, dal Real Madrid, come ringraziamento per aver battuto il Barcellona. Un rumeno però non poteva andare in giro con una macchina del genere, ne andava del prestigio del governo, una cattiva pubblicità per il regime che tutto voleva tenere sotto la sua ala protettrice. Helmuth non ne volle sapere di cedere anche questa volta ai comandi dall’alto, troppi i soprusi di cui era stato vittima e troppi i pestaggi e le sparizioni a cui aveva assistito per assecondare di nuovo il volere statale. Il destino però era in agguato, bastardo e viscido. Dopo pochi mesi dalla magica notte andalusa, Duckadam sparì definitivamente dalle scene calcistiche. Una trombosi ad un braccio dirà il diretto interessato e mai smentirà forse con una punta di vergogna, ma la versione più accreditata fu che gli avessero rotto le braccia quelli della Securitate, poiché non volle consegnare al figlio del dittatore Ceausescu la sua Mercedes, e per alcuni frasi di troppo sul regime dello stesso. Lo spedirono altrove, licenziato dall’esercito e messo a mezzo servizio senza pensione integrativa. Divenne poliziotto di confine, una vita a cercare di scappare  “oltre la foresta” per poi ritornarci dentro malinconicamente.

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MIRTA E RAMON


 Mirta non ci capiva niente di calcio, ma adesso stava iniziando a detestare quell’olandese di cui tutti avevano parlato per la sua assenza in Argentina, e che giocava con un’insolita maglia numero 14. Fuori dalla sua finestra della casa di Buenos Aires, un fiume di gente in festa si stava riversando nelle strade. Bandiere bianco azzurre all’aria, clacson squillanti e stelle filanti. È il 25 Giugno del 1978 e da pochi minuti l’Argentina ha appena conquistato il primo campionato del Mondo della sua storia. Quell’olandese, che in Argentina non c’era, si diceva per le scarse condizioni fisiche, per paura di venire rapito insieme alla famiglia o per contrasto con il regime del paese di Mirta, stava diventando nei suoi pensieri un nemico. Se era così bravo come dicevano gli uomini in giro in Argentina, se aveva vinto per tre volte la Coppa dei Campioni (che in verità manco sapeva cosa fossero, ma le avevano spiegato che valevano quanto le Copa Libertadores per cui tutti sbavavano) avrebbe dovuto giocarlo quel mondiale. E vincerlo. A lei in fondo bastava che non lo vincesse l’Argentina. Lei era una madre di Plaza de Mayo e tutto quello che aveva organizzato Videla, fosse politica o un mondiale di calcio, lo detestava con tutte le sue forze. Tutti i giovedì mattina da oltre un anno, si legava un fazzoletto bianco in testa e si recava in Plaza de Mayo a Buenos Aires per manifestare in maniera pacifica ma decisa sulla scomparsa di suo figlio, e con lei altre madri colpite dalla stessa sventura. Suo figlio Ramon, capello lungo fluente come il suo idolo Mario Kempes, era un “desaparecido”, un militante di sinistra, scomodo ai vertici governativi argentini. In quegli anni l’Argentina stava vivendo uno dei suoi periodi più bui con il governo del dittatore Jorge Rafael Videla. Nel marzo del 1976 i soldati argentini si ribellarono a Isabelita Peron sotto la guida del generale Videla, che in seguito si proclamò presidente a vita prendendo il comando della Junta militare. Subito il generale attuò una repressione senza precedenti nei confronti della sinistra: decine di migliaia di persone appartenente ad essa o ai sindacati furono arrestate e torturate. Nacque il caso dei “desaperecidos”. Nel periodo tra il 1976 e il 1983 scomparvero tra le 10.000 e le 30.000 persone e molte di esse furono uccise. Tale carneficina era prevista dal regime golpista che mirò a ripristinare l’ordine nel paese. In un clima di terrore e paura, il dittatore Videla quasi impose la vittoria del campionato del mondo di calcio, il regime militare argentino si aspettava una vittoria per ottenere una legittimazione interna al paese. Il calcio degli argentini fu arrogante al punto di non tener conto degli avversari. Un movimento calcistico che aveva offerto campioni del calibro di Sivori e Angelillo non poté più permettersi di rimane a secco nell’albo d’oro mondiale. Al mondiale argentino partecipò anche la nazionale azzurra giudata da Enzo Bearzot. In un’Italia sconvolta dalle uccisioni ad opera dei terroristi delle Brigate Rosse (famoso il caso del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro) la nazionale azzurra portò una ventata di ottimismo fra la gente e non a caso quella squadra rimarrà  fra le più amate di sempre. Fu la nazionale del “blocco Juve”, con ben 9 giocatori bianconeri che parteciparono alla spedizione argentina, ma soprattutto fu  il mondiale di Pablito Rossi, lanciato a sorpresa titolare da Bearzot dopo aver vinto il titolo dei cannonieri di serie A con 24 reti con cui portò il suo Lanerossi Vicenza al secondo posto finale. Bearzot provò una soluzione nuova per l’attaccò azzurro: Rossi unica punta, Causio e Bottega finte ali, pronte ad inserirsi in avanti ma anche a dare una mano a centrocampo, forse il reparto più deficitario. Gli azzurri produssero il miglior calcio del mondiale e dopo aver battuto la Francia per 2-1 e l’Ungheria per 3-1, si tolsero la soddisfazione nell’ultima partita del girone di sconfiggere i padroni di casa argentini con un gol di Bobby Bettega. Nei gironi dei quarti di finale che dava ad una sola squadra il diritto di qualificarsi per la finalissima, l’Italia prima impattò con la Germania Ovest, poi sconfisse l’Austria con un gol di Rossi. Si arrivò all’ultima partita contro l’Olanda, una sorta di semifinale. Gli orange avevano gli stessi nostri punti ma il vantaggio di una migliore differenza reti. Per gli azzurri, obbligati a vincere a tutti i costi,  le cose si misero subito bene. Dopo 19 minuti un autogol di Brandts sembrò spianare la strada verso la finale. Nell’intervallo Bearzot sostituì Causio con Sala, credendo di dover dare fiato al Barone in vista della partita successiva. Ma gli azzurri crollarono impietosamente sotto i colpi di Brandts e Hann che con due tiri da distanza notevole uccellarono Zoff. L’Italia concluse quarta, sconfitta nella finalina dal Brasile di Dirceu. Nell’altro girone dei quarti di finale avvennero cose stranissime, anzi normali. A Rosario l’Argentina avrebbe dovuto segnare almeno quattro gol al Perù per estromettere il Brasile per la differenza reti. Ne segnò addirittura sei al portiere Quiroga, naturalizzato a tempo di record dal Perù pur non avendo rinunciato ad essere argentino. Quel giorno si dimenticò di fare il suo mestiere, quello appunto di parare e non ebbe nemmeno il comune senso del pudore di provare a fingere. Alla finalissima tra Argentina e Olanda partecipò anche il nostro Gonella in veste di arbitro dell’incontro. Arbitro alquanto distratto, tanto da non vedere dopo pochi minuti tre denti di Neeskens volare nell’aria dopo una gomitata assassina di Passerella. Segnò Kempes, pareggiò Nanninga. L’arbitro Gonella ammonì due olandesi mentre lasciò agli argentini licenza di picchiare indisturbati. All’ultimo minuto l’olandese Resenbrink colpì il palo della porta argentina. Passerella affermerà in seguito che se quel pallone fosse entrato Gonella avrebbe trovato un motivo per annularlo.Nei supplementari Kempes e Bertoni regalarono finalmente il titolo agli argentini per la gioia del generale Videla. Goleador di quei mondiali fu Kempes (l’idolo di Ramon) con 6 reti, il quale fu uno dei pochi a festeggiare sobriamente la vittoria in quanto contrario ai metodi di governo del generale Videla. Mentre Daniel Passatella alzava la coppa del Mondo, Mirta si sentì svuotata e ancora più sola. Quella vittoria avrebbe portato consenso popolare ancora maggiore a Videla,  e lei con le altre madri, vista ancora con più superficialità e meno importanza. Videla aveva dato al popolo argentino quello che desiderava da tempo: un titolo mondiale. Il resto sarebbe stato contorno di poco conto. Lentamente prese sonno fra pensieri inquieti e l’animo in frantumi.  Fece un sogno strano quella notte, sognò di volare libera sopra la città di Buenos Aires sospinta solo dalla sua forza di volontà che le permetteva di spiccare il volo da terra e planare senza difficoltà sopra i tetti delle case. Si svegliò carica come non mai, decisa a far valere le proprie ragioni e cercare la verità su suo figlio con decisione ancora maggiore del solito. Quello che purtroppo non poteva sapere è che anche suo figlio Ramon aveva effettuato un volo qualche tempo prima. Era sopra infatti ad uno di quei maledetti “vuelos de la muerte” da cui i militari argentini gettavano nelle acque del Mar de la Plata, i corpi nudi e inermi dei dissidenti di sinistra.

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LA NOSTRA CHAMPIONS LEAGUE


 Quante volte sognavamo di giocare una partita di Champions League, di calcare il manto erboso del Santiago Bernabeu o dell’Old Trafford di Manchester? Sogni di tifosi che svanivano con la sveglia mattutina, credule e realista. Con miei amici più cari, formammo una squadra amatoriale di calcio a 5 (il Real Benaco) che disputò per anni, il campionato del CSI nella zona di Crema.  Stanchi dei soliti avversari e delle solite palestre di gioco, nel Dicembre 2004 lanciai l’idea. “Ragazzi, si parte, si va a Colonia a giocare la Champions League”. Tutti mi guardarono con gli occhi increduli, ma conoscendo bene il mio personaggio capirono  subito che avevo combinato qualcosa a loro insaputa. “C’è un organizzazione chiamata Eurosportring che organizza tornei di calcio a 5 amatoriali all’estero. Mi sono iscritto all’ Hurth Trofee in Germania che si disputerà l’ultimo week-end di Maggio. Abbiamo venti giorni per confermare l’iscrizione.” Appena terminai la frase vidi miei amici impazzire di felicità. L’idea di sfidare tedeschi e francesi galvanizzò l’ambiente e in men che non si dica raccolsi l’adesione di dieci persone, me compreso.A Gennaio svolsi tutte le pratiche riguardo i vari incartamenti del torneo e andai a prenotare un furgone da nove persone che ci avrebbe accompagnato per i novecento chilometri fino a Colonia.


Giovedì 26 Maggio.

La giornata lavorativa sembrò non finire più, la trepidazione mi salì dentro. Alle diciassette e trenta scattai come una molla, uscì dal lavoro e andai a ritirare il furgone per la trasferta. Alle venti e trenta iniziai giro. Prima il Gino, poi Mauro ed infine Alberto e Roby. Con gli altri ci trovammo davanti alle Ancelle. Eravamo pronti, c’eravamo tutti, nel frattempo si erano aggiunto anche il Seve, il Razzo, il Gargio, il Simo e il Vivio. Alle ventidue precise partimmo da Crema con il furgone Tourneo e la Polo del Simo. Il viaggio verso la Germania fu lungo, fino al confine con la Svizzera piovve. Si sprecarono le risate, si rievocarono viaggi passati, si raccontarono aneddoti finche la stanchezza ci assalì. Ci fermammo in un autogrill all’inizio della Germania a dormire un po’.



Venerdi 27 maggio


Alle undici arrivammo davanti al Novotel di Colonia. Dopo esserci sistemati nelle proprie stanze decidemmo di andare in centro a mangiare qualcosa. Colonia era una città molto carina che però in quel momento era un cantiere unico. Da qui a qualche mese si sarebbero tenute le giornate mondiali per la gioventù e tutto si stava svolgendo in funzione di esso. Il pomeriggio e la sera lo trascorremmo in centro tra il Duomo ed alcuni pub dove la birra scorse a nastro.



Sabato 28 Maggio


Fu il giorno dell’esordio. Partimmo verso Hurth, dove si svolse il torneo, una cittadina a venti chilometri da Colonia. Appena arrivati alla palestra notammo subito la bellezza dell’impianto e la perfetta organizzazione dei tedeschi. Demmo un occhio al calendario. Ci aspettò subito un impegno che sembrò molto duro, i padroni di casa del Fortuna Oberschlesien. La tensione nello spogliatoio era alta, si capì che eravamo arrivati al dunque, il momento atteso da mesi. Entrammo in campo contratti, sbagliammo alcune occasioni abbastanza facili. Loro erano una squadra modesta ma con una buona difesa, con un età media un po’ superiore alla nostra ed alla fine pagarono dazio. Il Vivio sbloccò il risultato con un tiro dei suoi e poco dopo il Gino raddoppiò dopo una bella azione corale. La tensione svanì, giocammo bene ma in contropiede beccammo il gol dell’1-2. La fortuna ci volse le spalle. Il Razzo si infortunò alla caviglia (non riuscì più a giocare per il resto del torneo) e così soffrimmo terribilmente le loro azioni. A due minuti dalla fine però segnai in contropiede il gol del 3-1 finale. La prima era andata bene, osservammo i nostri prossimi avversari giocare. Sembrarono alla nostra portata, qualcuno iniziò già a parlare di passaggio del turno. Ci credemmo  già vincitori del prossimo incontro ma la realtà ci mise alla sbarra. Contro gli olandesi del VHL perdemmo 1-0 giocando una partita penosa. Nello spogliatoio Roby sbottò feroce. “Non si pùo giocare così da schifo, avevamo già vinto la partita ancor prima di disputarla”. La lezione sembrò essere recepita, sperammo non fosse troppo tardi.  Ci toccarono i forti francesi dell’ AJ Reginaburgiens (vincitori della passata edizione del torneo). Giocammo alla grande ma dovemmo soccombere per 2-0. I francesi vinsero matematicamente il girone, rimase solo un posto libero per i quarti di finale. Con una sola vittoria in tre partite sembrò impossibile per noi passare il turno. Prima della nostra ultima partita giocarono gli olandesi contro i tedeschi. Sembrò una partita dal destino già scritto, i tedeschi con 0 punti mentre gli olandesi 4, percui con una vittoria si sarebbero qualificati. Fecimo un tifo sfrenato per i tedeschi che incredibilmente riuscirono a pareggiare proprio all’ultimo minuto. Ci rimasero  i polacchi del KS Fottball Sport che avevano 4 punti. Con una vittoria saremmo stati noi a qualificarci. Eravamo super carichi, l’aver visto svanire la qualificazione nel nulla e ritrovarcela lì ad una vittoria di distanza ci diede la spinta per superare l’ostacolo polacco. Segnarono Roby e il Gino. Loro accorciarono le distanze e presero un paio di pali clamorosi. Nel momento di maggior sofferenza nostra però siglai il 3-1, con un tocco sotto a cucchiaio! Fu delirio! Il ricordo pìù nitido di tutta la trasferta fu quello: sul tabellone mancavano venti secondi alla fine della partita, in panchina era cominciata la festa sfrenata, sventolò il tricolore italiano, in campo ci abbracciammo e levammo i pugni al cielo per una vittoria che rimarrà per sempre nella nostra memoria. La festa continuò, per noi squadra di basso profilo la qualificazione ai quarti equivalse alla vittoria del torneo. Le birre non si contarono pìu, eravamo incredibilmente stanchi, quattro partite in un giorno furono una bella mazzata. All’indomani ci sarebbero toccati i siciliani del Coordiner Catania.



Domenica 29 Maggio


Sapevamo di non aver speranze di proseguire il torneo. Loro erano una squadra forte che partecipava al campionato di serie C1 nazionale, noi eravamo anche ridotti all’osso dopo l’infortunio del Gargio. Su dieci partecipanti alla trasferta ci ritrovammo a giocare in sei. Giocammo la nostra onesta partita ma perdemmo 2-0. Nel finale presi  la traversa e il Seve sbagliò da due passi un gol già fatto. Finì così la nostra avventura con un sesto posto finale che ci riempì di gioia e soddisfazione. La nostra Champions League ci lasciò ricordi splendidi per sempre.


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L'IMPERO DEI VILLANS


 Una squadra straordinaria. A quasi 30 anni di distanza non ci sono altri aggettivi per definire l’Aston Villa del biennio 1980-1982.

In due stagioni si prese tutto, Campionato e Coppa Campioni, lasciando dietro di se una scia di onnipotenza che ancora oggi viene celebrata dai tifosi claret and blue con dvd e libri celebrativi.

 La grandezza di questa squadra si potrebbe misurare con un solo dato statistico.

Vinse il campionato inglese 1980-1981 utilizzando per le 42 partite del torneo solo 14 giocatori, di cui 7 le giocarono tutte. Il Chelsea 2004-2005 per fare un paragone ne utilizzò 30 per diventare campione d’Inghilterra…

 La squadra non dispose di campioni di prim’ordine, spesso giocò un calcio ruvido ma efficace. Il risultato prima di tutto.

 Uno dei principali artefici di quel miracolo fu senz’altro il manager Ron Saunders arrivato alla corte dei villans nel 1973. Un uomo molto duro e dai pochi peli sulla lingua che credeva fortemente nel lavoro quotidiano. Le sue squadre furono sempre le più allenate in Inghilterra, predisposte a durare tutta la stagione senza cali di forma.

 C’erano poi il capitano Dennis Mortimer, capelli lunghi e dinamismo straordinario, il fantasista Gordon Cowans (visto poi in Italia nelle file del Bari) grande visione di gioco e tiro da fuori, l’ala sinistra Tony Morley personaggio bizzarro in campo e fuori.

 Ma la vera forza di quella squadra furono i due attaccanti.

Il rude Peter White, già campione d’Inghilterra con il Nottingham Forest nel 1978, polsini di spugna e grande abilità aerea. Quando non spizzava per i compagni, la spediva direttamente in porta (19 reti quell’anno).

 E Gary Shaw “il Bambino”, 19 anni e capelli a caschetto biondi, cresciuto nelle giovanili dei Villa di cui era tifoso. Si trovò a sostituire il suo idolo Little (danneggiato da parecchi infortuni), segnando la bellezza di 17 gol, molti dei quali nella prima parte della stagione dando la convinzione alla squadra di poter competere per il titolo al cospetto di squadre come Liverpool, Arsenal e Ipswich Town.

 Non venne considerata però una squadra simpatica. L’opinione pubblica e i giornali preferivano di gran lunga l’Ipswich Town, squadra allenata da Bobby Robson, che giocava un calcio migliore.

Proprio con l’Ipswich il testa a testa durò fino all’ultima giornata.

 I villans, seguiti da 20mila tifosi fino ad Highbury, persero per 2-0 contro l’Arsenal giocando una partita scadente. L’Ipswich due punti indietro ma con una migliore differenza reti non approfittò della situazione pareggiando per 1-1 sul campo del Boro.

 La stagione successiva non fu meno leggendaria. Il manager Saunders abbandonò la squadra nel Febbraio del 1982 per gli scarsi risultati ottenuti in campionato. Subentrò il suo assistente Tony Burton che porto la squadra sul tetto d’Europa.

 Dopo aver eliminato i tedeschi dell’est della Dinamo Berlino negli ottavi di finale, i villans si sbarazzarono nei quarti e in semifinale della Dinamo Kiev di Blochin e dell’Anderlecht.

Ad aspettare i debuttanti inglesi in finale a Rotterdam si presentò il Bayern Monaco di Rumenigge e Breitner. I tedeschi fecero la partita, sfiorarono più volte il gol ma vennero puniti dal primo vero attacco inglese. Al 67° minuto Morley in contropiede offri sul piatto di Peter White il pallone che valse la Coppa dei Campioni. Fu il sesto successo consecutivo per una squadra inglese.

 Raggiunto l’apice i villans cominciarono lentamente a perdere colpi.

 
Nella stagione seguente persero 2-0 dagli uruguaiani del Penarol nella finale di coppa Intercontinentale, si consolarono parzialmente nel Gennaio del 1983 conquistando la Supercoppa Europea ai danni del Barcellona ma il loro dominio europeo fu interrotto dalla Juventus di Platini che nei quarti di finale di Coppa dei Campioni eliminò i villans vincendo sia al Villa Park che al ritorno al Comunale.


DP

Monaco di Baviera (Allianz Arena e Olympiastadion)

 Settembre 2005